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Galleria dei Prigioni

Hall of Prisoners at the Accademia Gallery

Esiste un “crescendo” di emozioni nel percorrere la Galleria di Prigioni osservando da vicino i colossi non finiti di Michelangelo fino ad arrivare all’apice della perfezione formale, anatomica e complativa sotto il lucernario che ospita il David. Il miglior modo per assorbirne l’aura vittoriosa è ritagliarsi un momento per ammirarlo in silenzio prima di percorrere tutto il corridoio.

L’allestimento della Galleria dei Prigioni prevedeva nel corso dell’Ottocento un’esposizione di dipinti di scuola fiorentina, successivamente trasformato ai primi del Novecento per accogliere le imponenti sculture michelangiolesche provenienti dalla Grotta Grande del Giardino di Boboli. Questa trasformazione ha portato alla creazione di un percorso unico ed emozionante alla scoperta di Michelangelo. Il Corridoio deve il suo nome alle quattro sculture di nudi maschili note come “Prigioni” o “Schiavi”, iniziati dallo scultore per il faraonico progetto della tomba per il Papa Giulio II della Rovere. La prima commissione risale al 1505, prima dell’assegnazione degli affreschi della cappella Sistina (1508), quando il progetto prevedeva la realizzazione della più maestosa tomba mai realizzata in epoca cristiana per un papa. Il gruppo scultoreo in origine pare che dovesse essere composto da oltre 40 figure, collocate su vari livelli sovrapposti.

I quattro Prigioni scolpiti avrebbero dovuto essere posti alla base del monumento, la cui collocazione prevista era all’interno della Basilica di San Pietro. Michelangelo impegnò da subito denari ed energie per selezionare personalmente puro e luminoso marmo bianco di Carrara, marcando ogni blocco con tre cerchi. L’entusiasmo iniziale fu presto frenato purtroppo da un contrordine del papa che ordinò di accantonare la commissione nel 1506 in favore di altri progetti.

Ricostruzione del progetto di Michelangelo della tomba del papa Giulio II datata 1505 (1° progetto). Disegno di F. Russoli, 1952

Ricostruzione del progetto di Michelangelo della tomba del papa Giulio II datata 1505 (1° progetto). Disegno di F. Russoli, 1952

Il disegno originale fu ridotto in scala progressivamente fino a proporzioni molto meno sfarzose dopo la morte del papa nel 1513, poi ulteriormente nel 1521 e di nuovo nel 1534, motivo per cui i Prigioni rimasero nella bottega di Michelangelo a Firenze e mai utilizzati. Durante un arco di tempo lungo e travagliato di circa 40 anni, Michelangelo finì per concepire uno dei progetti più sublimi dell’intera carriera, completando la tomba per Giulio II, posta sì nella chiesa di San Pietro, ma non quella che il papa avrebbe sognato. Il gruppo scultoreo con il famoso Mosè si puo’ ammirare oggi nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma, circondato da figure dell’Antico Testamento e allegorie di Arti e Virtù trionfanti sui Vizi. Le sculture non-finite dei Prigioni avrebbero dovuto simboleggiare l’allegoria dell’Anima imprigionata nel Corpo, schiava delle debolezze umane.

Dopo la morte di Michelangelo i Prigioni furono trovati nel suo studio fiorentino di via Mozza dal nipote Leonardo Buonarroti. Egli decise di donarli al Granduca Cosimo I Medici insieme alla scultura del Genio della Vittoria che oggi è esposta nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio. Nel 1586 Bernardo Buontalenti fece collocare i Prigioni ai quattro angoli della Grotta Grande del Giardino di Boboli. Le pareti di questo ambiente erano perfette per accogliere le statue non finite di Michelangelo, visto che erano decorate con elementi naturali ed artificiali, concrezioni e spugne calcaree con cui il marmo ruvido si trovava in armonia. Vi rimasero fino al 1908, perfettamente conservate al riparo nella Grotta, fino al loro trasferimento alla Galleria dell’Accademia nel 1909.

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I 4 Schiavi di Michelangelo all’Accademia

Dipinti esposti lungo la Galleria dei Prigioni

L’allestimento delle pareti del Corridoio dell’Accademia fu radicalmente trasformato con l’arrivo del David nell’Ottocento e dei Prigioni nel 1909. Dal 2006 si puo’ ammirare una selezione di dipini di autori coevi di Michelangelo, fra cui Pontormo, Francesco Granacci, Andrea del Sarto e Michele di Ridolfo del Ghirlandaio.

Mappa della Galleria dei Prigioni

Fra’ Bartolomeo: Profeta Isaia e Profeta Giobbe (sulla sinistra appena entrati in sala)

I due dipinti ad olio su tela provengono dalla Chiesa della SS. Annunziata di Firenze, dove erano collocati all’interno della Cappella gentilizia del mercante Salvatore Billi. Le due monumentali opere del pittore e frate domenicano, erano i pannelli latarali di un “Salvator Mundi”, chiaro riferimento al nome del ricco committente, riportato anche nei cartigli dei profeti: “ECCE DEVS SALVATOR MEVS”. Sono databili dopo il soggiorno di Frà Bartolomeo a Roma nel 1514, un’ipotesi confermata dal rapporto stilistico con gli affreschi della volta della Cappella Sistina dipinti da Michelangelo. L’uso dei colori decisi e vibranti è ispirato proprio ai solidi e varipinti panneggi osservati nella volta della Cappella. Secondo Giorgio Vasari “la vaghezza de’ colori” diverrà proprio uno dei tratti distintivi della pittura manierista che si svilupperà poco dopo a Firenze. Sempre secondo Vasari, Frà Bartolomeo morì per colpa della sua golosità di frutta, dopo un’indigestione di fichi a soli quarantotto anni nel 1517.

Andrea del Sarto: Cristo in Pietà (a destra), affresco staccato, circa 1520.

L’affresco staccato proviene dal convento della SS. Annunziata a Firenze. L’opera presenta Cristo seduto in una grotta rocciosa, con le piaghe del supplizio ben visibili, circondato dagli strumenti della Passione secondo l’iconografia del “Vir dolorum” molto diffusa nel secolo XV, ma abbastanza inconsueta nella cultura toscana del primo Cinquecento. L’opera, di grande suggestione, rivela le eccezionali doti di disegnatore di Andrea del Sarto, particolarmente nella definizione del tronco e delle mani. L’affresco è databile agli anni Venti del Cinquecento, dopo un lungo periodo di contatto ed ammirazione per Michelangelo. Vasari definì Andrea del Sartopittore senza errori“, elogiandone la perfezione formale, la rapidità e sicurezza d’esecuzione. Andrea fu maestro della prima generazione dei manieristi (Pontormo e Rosso Fiorentino in primis), attento alla lezione di Michelangelo ma a differenza degli allievi non utilizzò spregiudicatezze audaci, rinnovando il repertorio tradizionale in maniera sempre misurata ed impeccabile.

Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Testa ideale (olio su tavola) circa 1560-1570 (alla sinistra di Pontormo)

Questo dipinto ovale databile tra il 1560 e il 1570, può essere considerato un pendant dell’altro ovale collocato a lato del dipinto del Pontormo. La donna qui rappresentata sembra essere una versione aggraziata ed ammaliante ispirata alla “Testa ideale” di cui esistono numerose varianti fra i disegni di Michelangelo. Le complesse trecce, le perle inserite nei capelli, l’orecchino, l’anello e la collana d’oro danno a quest’immagine un tono più leggero e decorativo rispetto ai prototipi michelangioleschi.

Michelangelo's drawing on the left, Ghirlandaio's Ideal Head "Zenobia" on the right

Disegno di Michelangelo a sinistra, la testa ideale “Zenobia” del Ghirlandaio sulla destra

Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Testa ideale (olio su tavola) circa 1560-1570 (alla destra di Pontormo)

Questo dipinto a pendant del precedente, proviene dal Convento delle Stabilite di Firenze. Questa versione di “Testa ideale” sembra molto vicina al ritratto allegorico di Michelangelo conservato a Casa Buonarroti di Firenze. La figura femminile è dipinta a seno nudo con velo trasparente tenuto da uno stretto bustino che ricorda quasi un’armatura. In questo ovale la donna è stata identificata come Zenobia, antica regina nonchè guerriera impavida, donna forte, virtuosa e bella. Preziosissimi sono i dettagli delle perle e delle gemme che ornano il copricapo, la fronte e l’orecchio della donna.

Pontormo's Venus and Cupid based on a drawing by Michelangelo

La Venere e Cupido di Pontormo, basato sul cartone di Michelangelo

Pontormo: Venere e cupido (olio su tavola, dipinto su cartone preparatorio di Michelangelo) ca 1533.

L’opera fu dipinta da Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, nel 1533. Michelangelo preparò per lui il cartone con le inconfondibili forme scultoree di una Venere e un cupido in posa piuttosto elaborata. Secondo quanto scrive Vasari, Bartolomeo Bettini fece eseguire per il suo palazzo di Firenze, un cartone da Michelangelo con “una Venere ignuda con un Cupido che la bacia”. Il dipinto avrebbe dovuto far parte di una complessa decorazione avente per soggetto l’amore e i poeti che lo hanno cantato. Le due figure, con i loro rispettivi atteggiamenti, incarnerebbero la teoria rinascimentale dell’amore: l’amore terreno guidato dai sensi (Cupido), e l’amore celeste (Venere) rivolto al divino.

Michelangelo (attribuíto a), cartone per la Venere e Amore, carboncino, 1310 x 1840 mm, 1533c. Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, inv. 86654 http://figura.art.br/revista/dossier/vasari-e-la-parte-di-michelangelo-1543-1550/

Michelangelo (attribuíto a), cartone per la Venere e Amore, carboncino, 1310 x 1840 mm, 1533c.
Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, inv. 86654

Bust of Michelangelo

Busto di Michelangelo di Daniele da Volterra (all’entrata del corridoio a destra)

Daniele Ricciarelli (1509-1566) meglio noto come Daniele da Volterra, conobbe Michelangelo in vita e fu suo seguace, pittore e scultore. Nella sua casa di Roma fu ospitato varie volte Michelangelo, per il quale scolpì diverse versioni di busti in bronzo. Nell’opera esposta all’Accademia, Daniele da Volterra presenta un anziano Michelangelo con i segni della vecchiaia sul volto, dove si riconosce la fisionomia schiacciata del naso rotto durante un alterco in gioventù a Firenze. Il busto testimonia l’ultima parte della lunga e produttiva vita del Maestro che morì a Roma all’età di 89 anni.

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